José Gorostiza (Villahermosa, 1901 – Città del Messico, 1973) è stato poeta e intellettuale di spicco nei decenni centrali del XX secolo in Messico, animando la rivista e il gruppo letterario Los Contemporáneos. Oltre all’impegno come scrittore, ha ricoperto vari incarichi nel corpo diplomatico messicano e, dal 1954, è stato membro della Academia Mexicana de la Lengua. Figura silenziosa e appartata, in vita ha pubblicato – oltre al suo capolavoro Muerte sin fin (1939) – solo un’altra raccolta poetica, Canciones para cantar en las barcas (1925).
Francesco Fava (Roma 1978) è ricercatore in letteratura spagnola all’università IULM di Milano e traduttore letterario. Ha scritto libri e articoli sulla poesia spagnola e ispano-americana contemporanee, occupandosi – tra gli altri – di Octavio Paz, Pedro Salinas, Luis Cernuda, Jorge Guillén, Juan Rulfo, Fernando Pessoa.
Muerte sin fin (Morte infinita) è il capolavoro di José Gorostiza e una delle pietre miliari della poesia ispano-americana del XX secolo, che appare qui per la prima volta in edizione italiana, nella traduzione di Francesco Fava.
Poema in dieci canti, è una riflessione sulla morte e un’esplorazione dei limiti del linguaggio. Morte e vita, Dio e uomo, intelligenza umana e parola poetica, si rispecchiano nell’immagine centrale del testo, di sconvolgente semplicità: un bicchiere d’acqua, connubio cristallino di forma e sostanza.
Gorostiza dà vita a un testo al contempo lirico e filosofico, astratto e concretissimo, proponendo una danza della morte rivisitata in chiave contemporanea, condotta “sulla riva letale della parola”.
I Lleno de mí, sitiado en mi epidermis por un dios inasible que me ahoga, mentido acaso por su radiante atmósfera de luces que oculta mi conciencia derramada, mis alas rotas en esquirlas de aire, mi torpe andar a tientas por el lodo; lleno de mí – ahito – me descubro en la imagen atónita del agua, que tan sólo es un tumbo inmarcesible, un desplome de ángeles caídos a la delicia intacta de su peso, que nada tiene sino la cara en blanco hundida a medias, ya, como una risa agónica, en las tenues holandas de la nube y en los funestos cánticos del mar – más resabio de sal o albor de cúmulo que sola prisa de acosada espuma. No obstante – oh paradoja – constreñida por el rigor del vaso que la aclara, el agua toma forma. En él se asienta, ahonda y edifica, cumple una edad amarga de silencios y un reposo gentil de muerte niña, sonriente, que desflora un más allá de pájaros en desbandada. En la red de cristal que la estrangula, allí, como en el agua de un espejo, se reconoce; atada allí, gota con gota, marchito el tropo de espuma en la garganta ¡qué desnudez de agua tan intensa, qué agua tan agua, está en su orbe tornasol soñando, cantando ya una sed de hielo justo! ¡Mas qué vaso – también – más providente éste que así se hinche como una estrella en grano, que así, en heroica promisión, se enciende como un seno habitado por la dicha, y rinde así, puntual, una rotunda flor de transparencia al agua, un ojo proyectil que cobra alturas y una ventana a gritos luminosos sobre esa libertad enardecida que se agobia de cándidas prisiones! |
I Pieno di me, assediato nella pelle da uno sfuggente dio che mi soffoca, forse ingannato dal suo raggiante effondere di luci che cela questa mia coscienza sparsa, le mie ali spezzate in schegge d’aria, il mio maldestro incedere nel fango; pieno di me – stracolmo – mi riscopro nell’immagine attonita dell’acqua, che è solo una cascata immarcescibile, un precipizio di angeli caduti alla delizia intatta del suo peso, che non ha nulla se non il volto in bianco, mezzo affondato, come un riso in agonia, tra le tenui lenzuola della nube e nei funesti cantici del mare – retrogusto di sale o albore in cumuli più che semplice fretta d’incalzante spuma. E tuttavia – oh paradosso – prigioniera del rigore acclarante del bicchiere, prende una forma l’acqua. In lui si adagia, affonda e costruisce, compie un’amara era di silenzi e il riposo gentile di una morte bambina, sorridente, che un aldilà d’uccelli deflora, stormo allo sbaraglio. Nella rete di vetro che la strangola, è lì, come nell’acqua di uno specchio, che si riconosce; legata lì, goccia con goccia, tropo di spuma vizzo nella gola, che nudità di acqua così intensa!, che acqua così acqua, sta nel suo orbe iridescente e sogna, canta oramai una setedi ghiaccio giusto! Ma che bicchiere – anche – provvidente questo che ora si gonfia come una stella in boccio, che ora, in eroica promessa, si accende come un seno abitato dalla gioia, e restituisce, puntuale, un rotondo fiore di trasparenza all’acqua, un occhio che proiettile raggiunge alture e una finestra d’urla luminose su quell’ardente libertà insofferente a candide prigioni |
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VII Pero el vaso en sí mismo no se cumple. Imagen de una deserción nefasta ¿qué esconde en su rigor inhabitado, sino esta triste claridad a ciegas, sino esta tentaleante lucidez? Tenedlo ahí, sobre la mesa, inútil. Epigrama de espuma que se espiga ante un auditorio anestesiado, incisivo clamor que la sordera tenaz de los objetos amordaza, flor mineral que se abre para adentro hacia su propia luz, espejo ególatra que se absorbe a sí mismo contemplándose. Hay algo en él, no obstante, acaso un alma, el instinto augural de las arenas, una llaga tal vez que debe al fuego, en donde le atosiga su vacío. Desde este erial aspira a ser colmado. En el agua, en el vino, en el aceite, articula el guión de su deseo; se ablanda, se adelgaza; ya su sobrio dibujo se le nubla, ya, embozado en el giro de un reflejo, en un llanto de luces se liquida. |
VII Ma il bicchiere in se stesso non si compie. Figura di nefasta diserzione, cosa nasconde il suo rigore inabitato, se non questo chiarore triste e cieco, se non questa lucidità esitante? Eccolo lì, inutile, sul tavolo. Epigramma di spuma che si spiga dinanzi a un uditorio anestesiato, incisivo clamore a cui la sordità tenace degli oggetti mette il morso, fiore di pietra aperto verso dentro, verso la propria luce, specchio egotista che contemplandosi assorbe se stesso. Ma c’è qualcosa in lui, è forse un’anima o l’istinto augurale delle sabbie, forse una piaga che è dovuta al fuoco, dove il suo vuoto lo tormenta. Da queste zolle incolte, aspira a esser colmato. Che sia nell’acqua, nel vino o nell’olio, svolge l’abbozzo del suo desiderio; si attenua, dimagrisce; il suo sobrio disegno ora s’annuvola, ora, avvolto nel giro di un riflesso, in un pianto di luci si fa liquido. |